L’antimafia sociale come modello per lo sviluppo

Antonio Mazzeo, giornalista e pacifista, impegnato nella lotta per i diritti umani e per la legalità, si racconta attraverso la nostra intervista. Autore di diversi saggi, ha condotto inchieste riguardanti le collusioni mafiose e politiche nella provincia di Messina e non solo.

Si è occupato dei conflitti internazionali e dei traffici illegali delle organizzazioni criminali, soprattutto per quelli dietro la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina e proprio nel 2010 ha pubblicato I Padrini del Ponte, volume in cui evidenzia gli inquietanti retroscena e i ruoli delle cosche nel contesto che vede la realizzazione della mega-infrastruttura.

Come risponde lui stesso ad una delle nostre domande “un vero giornalista deve essere un militante, deve stare dalla parte della verità degli “ultimi”, si chi non ha diritto di parola, di coloro a cui vengono negate verità e giustizia. Si deve essere testimoni e portavoce degli oppressi, nel Sud del mondo e in mezzo a noi”.


Come sono iniziate le sue battaglie e i suoi interessi nei confronti delle tematiche sociali?

Mi sono formato umanamente, culturalmente e politicamente nel corso degli anni ’70 con le grandi mobilitazioni studentesche e dei lavoratori in una fase storica di profonde trasformazioni e conquiste democratiche in Italia. La guerra in Vietnam, la violenta repressione sviluppata dallo Stato per opporsi alle richieste popolari, un interesse generale sempre maggiore per le problematiche del sottosviluppo nel cosiddetto “Sud” del mondo, la difesa dell’ambiente, l’escalation nucleare e i rischi reali dell’olocausto mondiale, hanno profondamente colpito la mia sensibilità. Da adolescenti è normale che ci si ponga dubbi e domande sul mondo e sull’ordine delle cose e che si senta il dovere di esserci, contare, contribuire al cambiamento, poter decidere senza deleghe. Poi i primi passi nel volontariato come animatore in un villaggio di ex baraccati della periferia nord di Messina e i campi di lavoro e studio con Mani Tese…

Nella nostra provincia, quali sono le dinamiche mafiose delle quali tratta spesso nelle sue inchieste?

Messina e la sua provincia si caratterizzano per una presenza pervasiva, diffusa, direi sistemica della borghesia mafiosa, cioè di una classe che arriva a controllare gli apparati dello Stato e le istituzioni locali. All’ombra delle decine di logge massoniche o paramassoniche, imprenditori piccoli e grandi, magistrati, finanzieri, banchieri, docenti universitari, la casta dei progettisti e degli ingegneri, i colletti bianchi e i boss di mafia impongono autoritariamente le regole del gioco, si dividono prebende e affari, banchettano ai tavoli delle grandi opere pubbliche, il Ponte sullo Stretto ad esempio, vero catalizzatore di interessi criminali e crimonogeni. Il primo effetto di questo connubio tra poteri forti è la profonda crisi democratica della vita politica e sociale a livello locale e regionale, l’emarginazione di ogni forma di dissenso. E in ultimo, quando le soggettività “altre” non possono più essere rese invisibili grazie al monopolio esercitato dalla casta sui media oppure espulse dai territori (con il conseguente impoverimento culturale generato dall’esodo di migliaia di giovani diplomati e neolaureati), può essere anche deciso l’omicidio selettivo o la punizione esemplare.

Attività antimafia a Barcellona. Quali sono gli strumenti, secondo lei, più efficaci e meno efficaci per combattere la mafia?

Personalmente non ho mai creduto che la mera attività investigativa o la repressione in ambito poliziesco e giudiziario siano elementi sufficienti ad ostacolare l’infiltrazione mafiosa nei tessuti sociali ed economici di un territorio. Specie poi se questo avviene in realtà dove aldilà di pochi casi di serio impegno professionale ed integrità morale, le istituzioni sono al servizio del potere e finanche strumento di protezione e rafforzamento delle classi dominanti. Per questo dovrebbe essere l’antimafia sociale il modello su cui sviluppare gli anticorpi di un contesto così complesso e così drammaticamente contiguo come quello barcellonese. Penso in concreto alle esperienze di volontariato politicamente radicale e assolutamente non assistenzialista nei quartieri, ad un impegno di rinnovamento democratico e partecipativo nella scuola e nell’università, ad un azzeramento delle consorterie politiche e dei carrozzoni clientelari che ammorbano la vita amministrativa, alla crescita di una coscienza del rifiuto e della disobbedienza alla mafia tra i cittadini, i commercianti, gli imprenditori, ecc. In merito all’azzeramento di cui parlavo prima, irrinunciabile per riappropriarsi del controllo democratico, penso ad esempio allo scioglimento d’autorità del consiglio e dell’amministrazione comunale, specie adesso che sono stati chiariti gli scandalosi scenari che stanno dietro l’approvazione della variante al PRG per l’insediamento in contrada Siena di un mega parco commerciale, un progetto che vede protagonista una società, la Di.Be.Ca., finita sotto sequestro da parte della Direzione Investigativa Antimafia di Messina. Sarebbe un segnale forte di cambiamento che consentirebbe di rimettere in gioco energie nuove anche in vista del prossimo appuntamento elettorale amministrativo.

In una sua recente pubblicazione, “I Padrini del Ponte”, delinea gli affari sottesi al progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. In sintesi, quali sono le motivazioni del suo NO?

Io distinguerei le tesi sposate ne “I padrini del Ponte” con le ragioni-motivazioni del “NO al Ponte” testimoniate da decine di migliaia di cittadini. Il libro delinea le caratteristiche criminogene del “Mostro sullo Stretto”, gli appetiti delle cosche calabresi e siciliane che puntano ad accaparrarsi subappalti e forniture di cemento e calcestruzzo, imporre guardianie, fare incetta di terreni a rischio di esproprio, controllare cave e discariche di inerti, ecc.. Ma in particolare si tenta di spiegare l’originalità criminale di questa grande opera: per il suo alto valore simbolico e per gli interessi politico-strategici ed economici che lo caratterizzano, il Ponte è visto dalle grandi organizzazioni mafiose transnazionale come un’opera che oltre a consentire una enorme operazione di riciclaggio di denaro sporco può ridare legittimità a quei soggetti criminali che hanno perso parte del consenso dopo la stagione delle stragi 1992-93 e che successivamente hanno scelto l’immersione per continuare a controllare impunemente ingenti risorse finanziarie pubbliche nella cosiddetta seconda repubblica di chiara matrice neoliberista. Ma il “No” ad ogni ipotesi di collegamento stabile nello Stretto ha soprattutto motivazioni di ordine ambientale, sociale, economico, occupazionale, di visione alternativa e sostenibile del modello del trasporto delle merci e delle persone da e per la Sicilia. E non ultimo, anche di ordine “pacifista”: l’eventuale realizzazione del Ponte fomenterà un nuovo processo di militarizzazione dei territori, di riarmo del sud Italia e in conseguenza di progressiva riduzione delle libertà individuali.

Ha curato molte inchieste sulle basi militari in Sicilia (e non solo). Qual è la sua opinione sul ruolo assunto dal nostro governo nel conflitto in Libia? E la posizione della nostra isola?

Nonostante i debiti storici e morali che l’Italia ha con la Libia per i crimini commessi durante la tragica epoca coloniale, si è deciso d’imbarcarsi in un’operazione di cui nessuno al mondo, Stati Uniti e NATO compresi, sa come poter regolare e soprattutto uscirne. Dopo aver affidato alle forze armate libiche, appositamente armate ed addestrate dall’Italia, il lavoro sporco contro il flusso di migranti sub-sahariani, grazie all’allestimento di veri e proprio lager in Libia o consentendo mortali deportazioni nel deserto; dopo i baciamani al “dittatore” Gheddafi da parte dell’establishment politico e dei consiglieri di amministrazione delle maggiori società e banche italiane; dopo aver consentito la scalata dei capitalo libici a Finmeccanica, il complesso militare industriale italiano ancora in buona parte in mano allo Stato, in nome dell’accaparramento del gas e del petrolio e dei miliardari fondi libici investiti nelle piazze finanziarie internazionali, scateniamo una nuova guerra in Africa che potrebbe avere un devastante effetto domino in tutto il continente e nel mondo arabo. E lo facciamo stracciando un trattato bilaterale “d’amicizia” firmato da appena un paio d’anni e trasformando la Sicilia in una portaerei nel Mediterraneo. Così, stiamo assicurando alle forze armate della coalizione dei “volenterosi” a guida NATO lo scalo militare di Sigonella, gli scali civili-militari di Trapani Birgi e Pantelleria e finanche le piste dell’aeroporto di Catania-Fontanorossa. Per non dimenticare il ruolo strategico del porto di Augusta dove approdano le unità di guerra della coalizione e i sottomarini nucleari USA, vere e proprie bombe ecologiche e radioattive a due passi da popolosi centri abitati. Questa maledetta guerra rischia di ipotecare per i prossimi decenni il modello-immagine dell’isola: piattaforma di morte e immenso centro di detenzione per decine di migliaia di donne e uomini in fuga dalle guerre e dai disastri ambientali di mezzo mondo.

Vittorio Arigoni è stato ucciso. Qual è la sua opinione su Vik, sulle sue missioni di pace e sul suo motto “Restiamo umani”?

Vittorio “Vik” è il simbolo di una generazione che ha rifiutato ogni coinvolgimento con le logiche di distruzione, di guerra, di sopraffazione e di violazione efferata dei diritti umani. È la persona che mette cuore, corpo, anima in difesa dei dimenticati, degli emarginati, di chi è condannato al dolore dell’assedio e alla solitudine. E mentre c’è chi si straccia le vesti invocando vendette mirate, bombardamenti, la generalizzazione della pena di morte di governanti-dittatori ex amici, c’è invece chi chiede nel nome dell’uomo di fermarsi, di non perdere la ragione, di rompere l’isolamento con la non-violenza. L’Utopia della pace e della giustizia sulla devastante realtà del sangue, dell’odio e della morte. Ma soprattutto un chiaro messaggio di speranza in un  mondo sempre più anestetizzato all’indifferenza.

Quale dovrebbe essere, a suo avviso, il suolo del giornalista nel contesto socio-politico attuale?

Da non “giornalista” che ha sempre esercitato l’obiezione di coscienza all’iscrizione all’ordine dei giornalisti, istituto medievale che non ha mai tutelato quei giovani cronisti sovraesposti per le loro denuncie del malaffare e delle ingiustizie, mi si permetta d’invocare il diritto-dovere di essere di “parte”, di schierarsi, di non essere ipocritamente e cinicamente “imparziale”. Un vero giornalista deve essere un militante, deve stare dalla parte della verità degli “ultimi”, di chi non ha diritto di parola, di coloro a cui vengono negate verità e giustizia. Si deve essere testimoni e portavoce degli oppressi, nel Sud del mondo e in mezzo a noi. Rivendicando sempre e dovunque la propria indipendenza dai centri di potere che controllano l’informazione in regime di monopolio per occupare impunemente e in nome del dio profitto ogni sfera del politico, del sociale e dell’economia.

Quali sono i progetti futuri del giornalista e dell’eco pacifista Mazzeo?

Se per progetti s’intende un nuovo volume o lavoro di ricerca, credo proprio di no, non fosse altro per le enormi difficoltà ad incontrare editori coraggiosi e disponibili a farsi carico dei rischi che comporta uno sforzo di denuncia e di verità. Spero però di riuscire nel mio piccolo a continuare un’opera di testimonianza di quei crimini economici, politici e ambientali che la borghesia mafiosa perpetua nella nostra regione e a fornire strumenti di analisi e dibattito sui temi sempre meno sentiti e visibili del diritto alla pace e della lotta alle guerre e ai processi di militarizzazione del territorio. Un impegno che continuerò a fare a titolo del tutto volontario e nei ritagli di tempo strappati nelle pause dal lavoro. Perché, come dicevo prima, non sono un “giornalista” e la mia professione retribuita è quella d’insegnante di scuola media. Una condizione simile, purtroppo, alla stramaggioranza dei cronisti di frontiera.


Intervista a cura di Giulia Carmen Fasolo e Chiara Siragusano, pubblicata in MetroPòlis, maggio 2011

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